Nella complessa storia della regione Emilia la vita di corte con tutti i suoi fasti ha certo avuto molto spazio e lo dimostra l'
opulenza delle ricette che ci vengono proposte fin dagli albori della pubblicistica culinaria, a partire dal Maestro Martino che visse e operò a Roma intorno alla metà del XV secolo.
Nel suo libro ci fornisce per esempio la
ricetta di una torta di formaggio che denomina
«Torta bolognese», un cibo ricco per la sostanza degli ingredienti e gli aromi di spezie e erbette.
«Piglierai altretanto cascio [...] et grattalo. Et nota che quanto è più grasso il cascio tanto è meglio; poi habi de le vietole, petrosillo et maiorana; et nettate et lavate che l'avrai, battile molto bene con un coltello, et mittirale inseme con questo cascio, menandole et mescolandole con le mani tanto che siano bene incorporate, agiongendovi quattro ova, et del pepe quanto basti, et un pocho di zafrano, item di bono strutto overo botiro frescho, mescolando et incorporando tutte queste cose molto bene inseme como ho ditto. Et questo pieno mettirai in una padella con una crosta di sotto et una di sopra, daendoli il focho temperatamente; et quando ti pare che sia meza cotta, perché para più bella, con un roscio d'ovo battuto con un pocho di zafrano la farai gialla. Et acconoscere quando ella è cotta ponerai mente quando la crosta di sopra si levarà et alzarà in suso, che allora starà bene et poterala levare dal focho».
Nei primi decenni del XVI secolo Cristoforo di Messisbugo che operò alla corte degli Estensi nel suo scritto intitolato Banchetti, composizioni di vivande ci fornisce
la ricetta della «torta d'erbe alla ferrarese» (che poi si diffuse con alcune varianti in Romagna, in Liguria e nella toscana Lunigiana) e quella della mortadella divenuta ben presto famosa e rimasta legata soprattutto alla città di Bologna.
Un
alimento antichissimo di questa regione è infatti quello fornito dalla carne di maiale, visto che le prime tracce di maiali allevati nel Piacentino riportano a un millennio prima dell'era cristiana.
A Bobbio, in Val Trebbia, all'interno dell'abbazia di San Colombano, si può ammirare un mosaico che raffigura il rito dell'uccisione del maiale e fonti documentarie del IX secolo riportano che i monaci dell'abbazia allevavano nelle selve di proprietà fino a quattromila suini all'anno.
Il primo ambasciatore della coppa fu il cardinale piacentino Giulio Alberini (1664-1752), ministro di Filippo V di Spagna, che dopo aver mediato il matrimonio del sovrano con Elisabetta Farnese fu un potente capo della diplomazia spagnola e l'inventore dei pranzi diplomatici. Estimatore convinto della coppa piacentina e degli altri salumi della sua terra di lui rimane la ricetta di un
timballo di maccheroni con salsa di code di gamberi, besciamella, funghi, burro e formaggio.
Il medico e storiografo Marco Cesare Nannini documenta la
produzione di zampone e cotechino già agli
inizi del Cinquecento. La leggenda vuole che i due prodotti siano stati inventati nel 1511 a Mirandola, quando la città venne assediata dalle milizie di papa Giulio II della Rovere e la scarsità di vettovaglie affliggeva la popolazione. I mirandolesi si sarebbero ingegnati a utilizzare anche le parti del maiale fino ad allora trascurate, insaccando la carne nella cotenna, dando origine al cotechino, e successivamente nelle zampe, facendo nascere lo zampone.
Fama secolare ha la già citata
mortadella denominata di Bologna perché pare che i salaroli bolognesi riuscirono a difendere il segreto della ricetta per secoli.
Nell'Ottocento è il romano Vincenzo Agnoletti a fornirci molte informazioni sulla cucina emiliana nella sua opera "
La nuova cucina economica". Dal dolce di mandorle chiamato
«Antinelli alla mantovana», alla interessante preparazione delle
«Cipolle alla modenese» così descritte:
«Abbiate delle cipolle cotte in quel modo che vorrete, accomodatele sopra il piatto bene untato di butirro con sotto fettine sottili di mollica di pane, formaggio sbrinzo (= sorta di formaggio svizzero, così detto da Brienz, città del cantone di Berna) e parmigiano grattato e butirro, fategli prendere un bel colore al forno e servite con sopra un poco di culì».
Per rimanere nell'ambito delle verdure l'Agnoletti suggerisce i
«Finocchi alla bolognese» molto elaborati e arricchiti:
«Quando saranno cotti in una bresa (= dal francese braise, tegame posto sulla brace) li finocchi, fategli ben scolare e levategli un poco del ciccio (= polpa) di mezzo, riempiteli poscia con un piccolo salpiccone (= sorta di ragù fatto di varie carni molto sminuzzate) cotto e ben ristretto, ovvero con una farsa (= farcia, ripieno) di vostro genio; indi infarinateli leggermente, indorateli con rosso d'uovo e butirro squagliato, panateli con metà pane e metà parmegiano grattato, fategli prendere un bel colore ad un forno temperato, ovvero friggeteli e serviteli». Una preparazione che troverà molte varianti nelle verdure ripiene che ancora oggi sono molto diffuse in tutta la regione.
E infine nell'opera dell'Agnoletti compaiono i famosissimi «
Tortelli e tortellini alla bolognese».
«Si danno due nomi a questa vivanda, abbenché si prepari con l'istessa pasta e coi medesimi ripieni; siccome fatti di una forma piccola, si servono per lo più in minestra col nome di tortellini, così anche fatti nell'istessa maniera, ma di forma più grande, si chiamano tortelli e si apprestano in tutte le precise maniere che li ravioli. Il modo di preparare tanto li tortelli che li tortellini è il seguente. Tirate una sfoglia sottile di pasta fatta come quella delle lasagne; indi con un tagliapasta grande o piccolo, secondo che vorrete, la taglierete in tanti tondi; ponete sopra ciascun tondo qualsivoglia ripieno che voi troverete descritto nell'articolo dei ravioli e ripiegateli nell'istessa maniera dei ravioli; unite poi le due estremità saldandole bene insieme con le dita. A questa vivanda si dà pure il nome di cappelletti, quando si copre la composizione con un altro tondo dell'istessa pasta, formando nel mezzo una specie di cupola di cappello. Alcuni nella pasta vi mettono un poco d'acqua tinta con zafferano e altri riempiono li tortelli o tortellini etc. con una farsa fatta con petto di pollo cotto, altrettanto midollo di manzo passato per setaccio, parmegiano grattato, sale, pepe pesto, canella in polvere e noce moscata e vi aggiungono alcune volte un poco di ricotta ed anche qualche rosso d'uovo, ma tutto ciò dipende da chi lavora per variare secondo il suo talento».
Della ricca cucina della città di Parma Giovan Felice Luraschi, sempre nella prima metà dell'Ottocento, nel suo manuale Nuovo cuoco milanese economico ci fornisce la ricetta dei «
Carciofi alla parmegiana» e quella del fegato invero molto elaborata.
«Tridate dell'erba fine, cioè poco basilico, maggiorana e presemolo; queste erbe conviene farle passare nel burro ed a mezza cottura vi si porrà il fegato tagliato a fette e passato una sol quarta parte di esso nel fiore di farina, giacché il rimanente deve essere naturale. Fatelo cuocere a vivo fuoco, ed a mezza cottura versatevi sopra un bicchiere di brodo liscio con sale, pepe, e a perfetta cottura unitevi due rossi d'uova con una spremuta di mezzo limone onde collegare la frittura, usando la massima precauzione onde non passi la cottura; indi sgrassatela e datela in tavola».
Il maggior vanto ancora oggi di questa regione sono indubbiamente le
paste all'uovo ripiene e no.
Sono sempre creazioni che non esigono fretta, anche se forse è ormai abbandonata la prescrizione tradizionale secondo la quale gli anolini, per esempio, esigono tre giorni di preparazione. Nel primo giorno ci si dovrebbe dedicare al ripieno, un altro giorno sarebbe necessario per farlo riposare, mentre l'ultimo andrebbe riservato all'impasto e alla fabbricazione dei fagottini arrotondati che ospitano la farcia.
Per il ripieno ogni città ha le sue peculiarità.
A Ferrara, ingredienti caratteristici sono le cervella e il petto di tacchino.
A Modena, specialità sono i ravioli a base di varie carni arrosto.
A Bologna, trionfo dei tortellini, che, dice la leggenda, furono ispirati a un oste, estasiato dalla vista dell'ombelico di Venere. Segue la sfilata delle paste con ripieno di magro.
I tortelli di Piacenza hanno il cuore di ricotta e erbette e sono avvolti a farfalla; si trovano simili anche a Parma, mentre a Ferrara entrano nel ripieno la zucca e il formaggio e si chiamano
«cappellacci».
Ci sono poi le paste imbottite e passate al forno, prime fra tutte le morbide, succulente lasagne.
Si scelgono di preferenza
uova dal guscio piuttosto scuro perché i tuorli promettono di essere particolarmente coloriti e di dare quindi alla pasta una bella tinta dorata. Secondo il tipo di pasta che si vuole ottenere, la sfoglia sarà più o meno sottile: stesa spessa col matterello ma tagliata fine per le paste da brodo (quadrucci, taglierini, maltagliati), tutto al contrario per le paste asciutte (lasagne, tagliatelle, garganelli, ecc.), dove la sfoglia sarà sottile e tagliata larga.
Condimento sovrano è il ragù, che ha qui la sua culla: è un ricco, sontuoso insieme di carni e di aromi, che esige lunga e paziente cottura. Ma i tortelli tradizionalmente vanno serviti in brodo. Anche per la lavorazione della carne suina ogni città ha la sua specialità: coppa e pancetta a Piacenza, prosciutto e culatello a Parma; l'ormai scomparso, o rarissimo,
«zucco» (un salame molto drogato, da cuocere) a Reggio; zampone a Modena,
«salama da sugo» a Ferrara, mortadella a Bologna.
Capitale italiana del prosciutto è Parma: gli stabilimenti di produzione sono concentrati in una zona particolare dove spira un venticello marino che dal Tirreno, attraverso la Versilia e l'Appennino, giunge nel Parmense portando il suo benefico réfolo che favorisce la stagionatura.
Tra i salumi emiliani la più misteriosa è la «salama da sugo», che gli Estensi servivano come afrodisiaco. Ancora oggi è sempre presente nei pranzi di nozze. È carne suina insaccata che si lascia maturare un anno, intrisa di vino e spezie, sotto la cenere. Prima di essere servita, è oggetto di una lunghissima bollitura; ne esce un cibo greve, eccitante, la cui digestione è altrettanto laboriosa della cottura.
Per la larga presenza della colonia ebraica soprattutto a Ferrara e a Reggio, si ritrovano numerosi piatti di quella tradizione: così, il prosciutto d'oca, così il
«buricco», una specie di grosso raviolo ripieno di carne tritata, così l'
«hamin», tagliolini all'uovo bolliti e conditi con grasso d'oca, uvetta e pinoli, e poi messi in forno, e i dolci di marzapane o fritti, le chiazze al formaggio e il polpettone di pollo e tacchino.
Discorso a sé meritano le
anguille della zona di Comacchio e Ferrara; si cuociono in vari modi secondo i gusti e la grandezza: si va da quelle gigantesche a quelle minuscole, simili ad aghetti guizzanti che finiscono ancora vivi in padella. È comunque pesce ad altissimo potere calorico, ideale col freddo; non manca mai nel pranzo di magro della vigilia di Natale.
Terzo grande protagonista della cucina emiliana è il famoso formaggio che si chiama genericamente
«grana» e che fu per molti anni oggetto di una zuffa accesissima tra
Parma e Reggio. Entrambe ne reclamavano l'origine e il primato; in realtà nacque in Val d'Enza, nel Reggiano, ma poiché quella zona gravitava commercialmente su Parma, il prezioso formaggio fu chiamato
«parmigiano».
Ottimi sono anche i dolci, primo fra tutti la cosiddetta
«zuppa inglese» (inglese, chissà perché), a base di pandispagna inzuppato in alkermes e farcito di crema e cioccolato, a strati. Eccezionale il
«panpepato» ferrarese (a proposito di pane, Ferrara produce uno dei migliori d'Italia), nel quale al tempo degli Estensi si usava nascondere all'interno un ducato d'oro che andava in dono al commensale che l'avesse trovato nel suo trancio. Nato probabilmente nel chiuso di qualche monastero, vista la povertà di grassi che lo rendeva presentabile anche nei giorni di magro e la forma che riproduce lo zucchetto degli ecclesiastici. È fatto con farina, miele, canditi, spezie, pepe, mandorle e ha una copertura di cacao.
Ricordiamo il
«buricco», che è un dolcetto quadrato di pasta frolla con un ripieno di mandorle e zucchero. È caratteristico della zona di Ferrara e di Reggio Emilia, dove è stato mutuato dalla tradizione della colonia ebraica per la quale è un dolce rituale.
Una delle più ricche cucine italiane ricordiamo il
«Timballo di maccheroni», che può essere definito la più classica
esperienza di agrodolce rinascimentale che offre la città di Ferrara. La ricetta arriva direttamente dalle
tradizioni culinarie dei Gonzaga e del Rinascimento. Oggi viene preparata nelle famiglie di stretta osservanza, in qualche ristorante, ma soprattutto nei caffè eleganti della città, dove è uso prendere l'aperitivo o una tazza di tè sbocconcellando un timballo. Il nome designa fedelmente la composizione: un involucro (in casa è grande ma nei caffè ha le dimensioni di una tartina da monoporzione) di pasta dolce che racchiude un ripieno di maccheroncini rigati insaporiti con un buon ragù di carne, burro, formaggio e besciamella.